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Distruggiamo il lavoro

Alfredo M. Bonanno (1994)

sabato 31 maggio 2008

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Il lavoro è argomento che torna in modo sempre più presente sulle pagine di tutti i giornali, in lezioni e conferenze accademiche, in omelie papali, in dibattiti politici elettorali e perfino in articoli e pamphlet scritti da compagni.

Le grandi domande che si pongono sono: come fronteggiare la disoccupazione crescente? Come ridare un senso alla professionalitàlavorativa penalizzata dal neo-sviluppo industriale? Come trovare strade alternative al lavoro tradizionale? Come , infine, ed è questo il livello a cui ragionano molti compagni, abolire il lavoro o ridurlo al minimo indispensabile?

Diciamo subito che nessuna di queste domande ci appartiene. Non ci interessano le preoccupazioni politiche di chi vede nella disoccupazione un pericolo per l’ordine e la democrazia. Non ci riguardano le nostalgie della perduta professionalità. Meno ancora ci entusiasmano i tessitori di alternative liberatorie al lavoro massiccio di fabbrica o al lavoro intellettuale irreggimentato dal progetto industriale avanzato. E, alla stessa maniera, non ci concerne l’abolizione del lavoro o la sua riduzione al minimo tollerabile per una vita pensata in questo modo piena e felice. Dietro tutto ciò c’è sempre la mano più o meno adunca di chi vuole regolarci l’esistenza, pensando in vece nostra o suggerendoci, con maniere educate, di pensarla a modo suo.

Siamo per la distruzione del lavoro e, come cercheremo do spiegare, si tratta di faccenda del tutto diversa. Ma procediamo con ordine.

La societàpost-industriale, su cui torneremo subito dopo, ha risolto il problema della disoccupazione, almeno dentro certi limiti, dislocando la forza lavorativa verso settori flessibili, facilmente manovrabili e controllabili. Adesso, nella realtàdei fatti, la minaccia sociale della disoccupazione crescente è più teoria che pratica e viene utilizzata come deterrente politico, per dissuadere larghi ceti d’opinione dal tentare indirizzi organizzativi che metterebbero in discussione, sia pure a livelli minimi, le scelte programmatiche del neo-liberismo, specialmente a livello internazionale.

Ora, essendo il lavoratore molto più controllabile nella sua veste appunto di lavoratore qualificato, attaccato al posto di lavoro e alla carriera nell’unitàproduttiva che lo ospita, dappertutto, ed anche da parte delle gerarchie ecclesiastiche, in nome per l’appunto di questo controllo, si insiste sulla necessitàdi dare lavoro alla gente, quindi di ridurre la disoccupazione. Non perché questa, di per sé, dal punto di vista della produzione, costituisca un pericolo, ma anzi al contrario, perché il pericolo potrebbe venire dalla stessa esperienza di flessibilitàormai diventata indispensabile nelle organizzazioni lavorative. L’aver sottratto una identitàsociale precisa al lavoratore, porta possibili conseguenze disgregative che rendono, in tempi medi, più difficile il controllo. E’ questo che intendono dire le geremiadi istituzionali sulla disoccupazione.

Allo stesso modo, gli interessi della formazione produttiva nel suo insieme non consentono più una preparazione professionale ad alti livelli, almeno per la gran parte dei lavoratori. Si e quindi sostituita alla passata richiesta di professionalitàuna attuale richiesta di flessibilità, cioè di adattabilitàa mansioni lavorative continuamente in modificazione, a passaggi da un’azienda all’altra, insomma ad una vita di cambiamenti in funzione della necessitàdei datori di lavoro. Fin dalla scuola si programmano adesso queste adattabilità, evitando di fornire quegli elementi culturali di carattere istituzionale che una volta costituivano il baglio tecnico minimo su cui il mondo del lavoro costituiva la professionalitàvera e propria. Non che non ci sia bisogno di alti livelli di professionalità, ma solo per poche migliaia di individui che vengono preparati nei master post-universitari, qualche volta a spese delle stesse grandi aziende che cercano così di accaparrarsi i soggetti più disponibili a subire un indottrinamento, e per naturale conseguenza delle cose un condizionamento.

In passato, anche recentemente, il mondo del lavoro possedeva una sua univocitàcaratterizzata dalla disciplina ferrea che lo permeava, dalla misurazione dei tempi per le catene di montaggio, ma anche dagli attenti controlli preventivi e susseguenti sugli stessi colletti bianchi, fino ad arrivare alle schedature e ai licenziamenti per banali comportamenti fuori della norma. Resistere in un posto di lavoro significa assoggettarsi , acquisire una mentalitàdi tipo militare, imparare procedure a volte complesse a volte semplici, applicare queste procedure, identificarsi con esse.

Il lavoratore viveva nell’azienda, aveva amicizie con compagni di lavoro, nel tempo libero parlava di problemi di lavoro, frequentava strutture dopolavoristiche e quando andava in ferie finiva per farlo insieme alle famiglie di altri compagni di lavoro. Per completare il quadro, specie nelle grandi aziende, iniziative sociali tenevano legate le diverse famiglie con passatempi e gite periodiche, i figli andavano in scuole a volte assistite finanziariamente dalla stessa azienda e quando si andava in pensione uno di loro prendeva il posto del genitore. Si chiudeva così, senza sbavature, il cerchio lavorativo che racchiudeva in sé tutta la personalitàdel lavoratore, ma anche quella della sua famiglia, suggerendogli in questo modo una identificazione totale con l’azienda. Pensate, tanto per fare un solo esempio, alle decine di migliaia di operai Fiat che tifavano a Torino per la Juventus, la squadra di Agnelli.

Tutto questo mondo è tramontato completamente. Anche se qualche residuo continua a funzionare, esso è scomparso nella sua omogeneitàe nella sua uniformitàprogettuale. Al suo posto è subentrato un rapporto lavorativo provvisorio e incerto, all’interno del quale l’indeterminatezza del futuro diventa fondamentale, dove la mancanza di professionalitàsignifica mancanza della base su cui progettare la propria stessa vita di lavoratore, e ciò in assenza di attuali progetti di crescita differenti, di attuali interessi tangibili che non siano quelli di guadagnare comunque quel tanto che basta a sbarcare il lunario o a completare il pagamento del mutuo sulla casa. Ora, nella condizione precedente, la fuga dal lavoro si configura come ricerca di un modo alternativo di lavorare, come re- impadronimento di quella creativitàproduttiva estorta dal meccanismo capitalista. Il modello era quello del rifiuto della disciplina, il sabotaggio sulla linea di produzione inteso come rallentamento di un’oppressiva cadenza, la ricerca di ritagli di tempo, somma di singoli minuti, da sottrarre all’estraniazione. Cos’, il tempo libero non istituzionalizzato, ma rubato all’attento controllo aziendale, veniva caricato di un valore alternativo, Si respirava al di fuori dei ritnìmi carcerari della fabbrica o dell’ufficio. Come si vede un universo che non corrisponde con le condizioni presenti dell’organizzazione produttiva, e meno che mai con le sue linee tendenziali di sviluppo. Di più. In quelle che, nelle loro linee essenziali non si distinguevano molto dalle primitive strutturazioni di fabbrica, quando la manodopera fuggita dalle campagne inglesi e scozzesi venne per la prima volta a livello massiccio chiusa letteralmente negli opifici tessili approntati dal grande capitale britannico accumulato in più di due secoli di piraterie, in quelle condizioni il gusto del tempo ritrovato veniva quasi subito avvelenato dall’impossibilitàdi fornirlo di senso che non fosse quello stesso dell’ambiente lavorativo. In altri termini, si recuperava il tempo solo in termini di risparmio della fatica fisica, non perché si sapesse e si volesse fare qualcosa d’altro, che non fosse il proprio lavoro. E ciò anche perché al proprio lavoro si era affezionati, lo si era infatti sposato per la vita e per la morte. Anche le ipotesi rivoluzionarie dell’anarcosindacalismo non smentivano queste condizioni di fondo, anzi la caricavano di significati liberatori, consegnando al sindacato il compito di costruire la societàlibera di domani a partire dalle stesse categorie lavorative di ieri.

Quindi, l’abolizione del lavoro significa, fino a qualche anno fa, eliminazione della fatica, creazione di un lavoro alternativo facile e gradevole, oppure, e questo nelle tesi più avanzate e sotto certi aspetti più utopistiche e peregrine , sua sostituzione col gioco, ma un gioco impegnativo, munito di regole e capace di dare al singolo un’identitàcome giocatore. Mi si potrebbe obiettare che l’analisi della categoria logica del gioco è stata estesa ben al di làdel gioco regolamentato, gli scacchi per fare un esempio, ed è stata portata fino all’ampiezza del concetto di gioco come comportamento ludico dell’individuo, gioco come espressione dei sensi, come erotismo o sensualitàvera e propria, come libera espressione di se stesso nel campo della gestualità, della manualità, dell’arte, del pensiero e di tutte queste cose messe insieme.

Questo certamente è stato ipotizzato, a partire dalle geniali intuizioni di Fourier, che si noti non si discostavano dall’ipotesi benthamiana di un interesse personale perseguendo il quale si ottiene indirettamente e senza volerlo una maggiore quantitàdi interesse collettivo. Che il buon viaggiatore di commercio Fourier abbia fatto tesoro delle sue esperienze individuali per costruirci sopra un incredibile tessuto di relazioni sociali fondato sulle affinità, è un fatto quanto si vuole interessante ma che non sfugge alle regole essenziali del lavoro inteso in termini di organizzazione globale di controllo, se non proprio di produzione in senso capitalista.

Da questo deriva che non è possibile nessuna abolizione del lavoro in termini di sottrazione progressiva di lavoro liberato, ma che occorre procedere in maniera distruttiva. Vediamo perché.

Prima di tutto è lo stesso capitale che ha smantellato per tempo la sua ormai inadatta formazione produttiva, sottraendo al singolo lavoratore la propria identitàlavorativa. In questo modo lo ha reso “alternativo†senza che quest’ultimo se ne sia accorto. E adesso procura di inoculargli tutte le caratteristiche esteriori della libertàformale. La libertàdi parola e di abbigliamento, la variabilitàdelle mansioni, il modesto impegno intellettuale richiesto, la sicurezza delle procedure e la loro standardizzazione assistita da una manualistica facile da seguire, il rallentamento dei tempi lavorativi, la sostituzione delle procedure d’obbligo con la robotica, la progressiva separazione tra unitàlavorativa e produttore, tutto questo costruisce un modello diverso che non corrisponde a quello del lavoratore diffuso nelle generazioni passate.

Insistere nel recupero del tempo sottratto significherebbe entrare in possesso di unitàtemporali aggiuntive che si inserirebbero a pieno diritto nel sempre crescente numero di altre unitàdiscrezionali di sospensione del lavoro, di cui il produttore stenta a capire il significato. Da ciò si avrebbe solo un aumento del senso di panico, più che la possibilitàdi provvedere ad un progetto qualsiasi di cose da fare in sostituzione del lavoro produttivo per conto terzi inteso in senso stretto. Che ci sia bisogno di una quantitàdi lavoro di molto inferiore a quella oggi obbligatoria per percepire un salario è faccenda che ieri veniva illustrata dai teorici rivoluzionari, mentre oggi è patrimonio analitico del capitalismo post- industriale e viene discusso in convegni e riunioni destinati a ristrutturare la produzione. Abolire il lavoro significa sostituirlo con quote di lavoro ridotte al minimo e destinate a produzioni utili. Questa ipotesi, oggi, non può essere accettata da noi, in quanto è la stessa del capitale, solo i suoi tempi di attuazione sono differenti, mentre non si discostano in nulla i metodi destinati a realizzarla.

Lottare per una riduzione, sia pure consistente, poniamo di venti ore settimanali, dell’orario di lavoro, non ha senso rivoluzionario, in quanto apre la strada alla soluzione di alcuni problemi del capitale e non certo di possibile liberazione per tutti. La disoccupazione come elemento di pressione, per quanto minimo possa essere, trovando come abbiamo visto non poche valvole di sfogo nell’organizzazione differente di lavori marginali, per il momento appare come l’unica molla che spinge la formazione produttiva capitalista a trovare soluzioni riduttive dell’orario di lavoro, ma in un futuro non molto lontano altre molle potrebbero venire dalla necessitàdi ridurre i quantitativi prodotti, e questo specialmente in una situazione internazionale di equilibri militari che non si distribuisce più in due superpotenze contrapposte.

La valvola di sfogo del volontariato, su cui tanto poco si discute mentre invece si tratta di un argomento che meriterebbe tutta la nostra attenzione, potrebbe fra le altre fornire una delle soluzioni operative alla riduzione dell’orario di lavoro, senza far sorgere la preoccupazione di come le grandi masse rese orfane del controllo di un terzo della loro giornata potrebbero impiegare il proprio tempo ritrovato. Visto in questi termini, il problema della disoccupazione non è più quello della crisi più grave del sistema produttivo attuale, quanto invece un momento costituzionale pertinente alla sua struttura, momento che può essere istituzionalizzato a livello ufficiale e recuperato come impiego progettuale del tempo libero, sempre ad opera della stessa formazione produttiva e tramite strutture a questo scopo create. Ragionando in questo modo, si capisce meglio l’analisi del capitalismo post- industriale come sistema omogeneo all’interno del quale il movimento della crisi non esiste essendo stato trasformato in uno dei momenti del processo produttivo stesso.

Tramontano quindi gli ideali “alternativi†di vita fondata sull’arte di arrangiarsi. I piccoli lavori artigianali, le piccole imprese fondate sull’autoproduzione, le vendite ambulanti di oggetto, le collanine. Nel chiuso di negozietti senz’aria e luce si sono consumate tragedie umane infinite negli ultimi vent’anni. Tantissime forze realmente rivoluzionarie sono rimaste intrappolate in illusioni che richiedevano non un normale lavoro individuale ma un superstruttamento, tanto più pesante quanto più legato alla volontàdel singolo di mandare avanti la baracca, di dimostrare che esistevano vie differenti al lavoro di fabbrica.

Ora, nelle condizioni ristrutturate dal capitale, si è visto come questo modello “alternativo†sia proprio quello che viene suggerito a livello istituzionale per uscire dalla crisi. E pronti come sempre a non capire da che parte soffia il vento, altre forze potenzialmente rivoluzionarie si racchiudono in laboratori elettronici e in altri piccoli negozi senz’aria e senza luce per sopraccaricarsi di lavoro e dimostrare che il capitale ancora una volta ha avuto ragione di loro. Se volessimo racchiudere in una formula semplice e breve il problema, potremmo dire che se una volta il lavoro conferiva una identitàsociale, quella appunto di lavoratore, identitàche integrandosi con quella di cittadino formava il suddito perfetto, per cui la fuga dal lavoro era un tentativo concretamente rivoluzionario diretto a spezzare il soffocamento, oggi, nel momento in cui il capitale non fornisce più una identitàsociale al lavoratore, ma al contrario cerca di utilizzarlo in maniera generica e differenziata, senza prospettiva e senza futuro, la sola risposta contraria al lavoro diventa quella di distruggerlo procurandosi una propria progettualità, un proprio futuro, una propria identitàsociale del tutto nuova e contrapposta ai tentativi di nientificazione posti in atto dal capitalismo post-industriale. La maggior parte degli infingimenti con i quali nei decenni passati il lavoratore cosciente di sé cercava di fronteggiare lo sfruttamento brutale immediato, riducendo la sofferenza lavorativa, metodi sui quali potrebbe essere scritto un libro di un centinaio di pagine, sono diventati oggi pratica costante dello stesso capitale, che suggerisce, quando non impone, frammentazioni delle unitàlavorative, tempi ridotti e flessibili, progettazioni autodefinite delle condizioni lavorative, partecipazione alle decisioni aziendali, assemblee decisionali su particolari aspetti della produzione, ideazione di isole autonome considerate reciprocamente clienti una dell’altra, competitivitàqualitativa, e tutto il resto. L’armamentario sostitutivo della classica, e monolitica, uniformitàdell’agire lavorativo, ormai raggiunto livelli non più controllabili dalla coscienza singola in senso stretto. Cioè, il singolo lavoratore è sempre di fronte all’eventualitàdi essere attirato in una trappola non facile a distinguersi, nella quale finisce per contrattare la propria combattività, ormai solo potenziale, con piccoli accomodamenti, i quali se una volta erano automodulati, quindi potevano considerarsi facenti parte del grande movimento di lotta contro il lavoro, oggi, essendo concessi, sono uno degli aspetti del lavoro, proprio quello munito delle maggiori caratteristiche di recupero e controllo. Se dobbiamo giocare con la nostra vita e nella nostra vita, dobbiamo imparare a farlo, e dobbiamo fissare noi stessi le regole del gioco, oppure dobbiamo progettare queste regole in modo che siano chiare per noi e labirinti incomprensibili per gli altri. Non possiamo affermare, genericamente, che il gioco munito di regole è ancora un lavoro ( cosa per altro vera, come abbiamo detto ), per poi continuare che se vengono a mancare queste regole allora si tratta di un gioco libero e quindi liberatorio. L’assenza di regole non è sinonimo di libertà. La presenza di regole imposte e la cui esecuzione è sottoposta a controllo e a sanzione è sinonimo di schiavitù. E il lavoro è stato questo e non potràmai essere altro, per tutti i motivi visti prima e per quelli che abbiamo dimenticato di ricordare. Ma l’assenza di regole può essere una tirannia diversa e forse peggiore. Se il libero accordo è una regola, io intendo seguirla e mi aspetto che gli altri, miei compagni nell’ accordo , la seguano. E ciò principalmente quando si tratta del gioco della mia vita e della mia vita in gioco. L’assenza di regole mi darebbe in pasto alla tirannia dell’incertezza, la quale se oggi è brivido per la quotidiana dose di adrenalina, domani potrebbe non starmi più bene, anzi certamente non mi staràpiù bene. E poi le regole, liberamente scelte, costituiscono la mia identità, il mio essere fra gli altri, ma anche il mio essere individuo cosciente di se e desideroso di aprirsi agli altri, di vivere in un mondo popolato di esseri liberi, vitalmente liberi, in grado di decidere da soli le proprie scelte. Questo ancora di più in un mondo che sta avviandosi verso l’apparente libertàdi una assenza di regole rigide, se non altro nel mondo della produzione. Per non farsi ingannare ancora una volta da orari di lavoro ridotti, flessibili, programmabili a piacimento, da ferie pagate, esotiche, personalizzate, per non farsi ingannare da aumenti salariali, da prepensionamenti, da finanziamenti gratuiti alle iniziative individuali, occorre darsi un proprio progetto di distruzione del lavoro, non limitarsi a ridurre i danni, per mantenere in vita non una manodopera meno stressata, quanto referente alla propria offerta di mercato, cioè una domanda passabilmente sostenuta. Qui tornano d’attualitàalcune riflessioni che sembravano ormai avere fatto il loro tempo. Distruggere una mentalitànon è possibile. Difatti, la mentalitàprofessionale, per come si estrinsecava anche nel raggruppamento partitico o sindacale di difesa e per fino nelle forme anarcosindacaliste, non poteva essere distrutta dall’esterno. Neanche il sabotaggio poteva riuscirci. Quando questo veniva impiegato era soltanto un mezzo di intimidazione contro i padroni, un segnale di lotta più avanzata nei riguardi dello sciopero, per far sapere che si era più decisi degli altri e che però si restava sempre disposti a sospendere l’attacco non appena le rivendicazioni non sarebbero state accettate.

Ma il mezzo resta distruttivo, non intacca indirettamente il profitto, come lo sciopero, ma colpisce direttamente la formazione produttiva, alla fonte o alla foce, nei suoi mezzi di produzione o nei prodotti finiti, non ha importanza, esso colpisce la realizzazione in atto o di giàconcluso. Ciò significa che agisce a prescindere dall’esistenza del rapporto di lavoro, colpisce non per ottenere qualcosa, o non solo per ottenere qualcosa, ma anche, e direi principalmente, per distruggere. L’oggetto per la distruzione, pure restando la proprietàdel capitale, a ben riflettere è sempre il lavoro, in quanto si tratta di quello che con il lavoro è stato ottenuto, prodotto, sia mezzi di produzione che prodotti finiti. Ecco quindi che comprendiamo meglio, ma soltanto oggi, l’orrore che provavano molti lavoratori di fronte agli atti di sabotaggio.

E mi riferisco qui a quei lavoratori che una vita di dipendenza totale aveva munito di una identitàsociale non facilmente cancellabile. Personalmente ho visto lavoratori piangere di fronte alla propria fabbrica attaccata e in parte distrutta, perché in quel luogo di morte essi vedevano attaccata e distrutta una considerevole parte della loro vita, e questa vita pur essendo misera e disprezzabile era la sola che avessero, la sola di cui avessero esperienza. Certo per attaccare occorre avere un progetto, quindi una identitàprogettualmente definita, una coscienza di quello che si vuole fare, anche e forse principalmente quando quello che si vuole fare lo si considera un gioco, lo si vive come un gioco. E il sabotaggio è un gioco affascinante, ma non può essere il solo gioco che si desidera giocare. Bisogna disporre di una moltitudine di giochi, vari e spesso contrastanti, allo scopo di evitare che la monotonia di uno di loro o l’insieme delle regole si trasformi in un ulteriore lavoro noioso e ripetitivo. Anche fare l’amore è un gioco, ma non lo si può giocare da mattina a sera, pena la sua banalizzazione, pena il sentirsi avvolti in un sopore che da un lato causa un piacevole benessere, dall’altro avvilisce, fa sentire inutili.

Anche andare a prendere i soldi dove si trovano è un altro gioco, che ha le sue regole, e che può degenerare in un professionismo fine a se stesso, quindi diventare un lavoro a tempo pieno con tutto quello che ne deriva. Ma è un gioco interessante, ed utile, se visto nella prospettiva di una coscienza matura, che non accetta gli equivoci di un consumismo sempre pronto ad ingoiare quanto si è riusciti a strappare alla formazione economica complessiva.

Anche qui occorre superare la barriera morale che ci hanno costruito addosso, occorre che si verifichi una frattura capace di porsi al di làdel problema. Allungare la mano sulla proprietàaltrui, anche per un rivoluzionario è faccenda piena di rischi, non solo legali in senso stretto, ma in primo luogo morali. La chiarezza in merito a quest’ultimo aspetto è importante, in quanto si tratta di superare quello stesso ostacolo che faceva piangere il vecchio operaio davanti alla fabbrica danneggiata.

La sacralitàproprietaria l’abbiamo succhiata col latte materno e non ce ne liberiamo facilmente.

Preferiamo prostituirci per una vita intera al datore di lavoro, ma avere la coscienza tranquilla, la coscienza di aver fatto il proprio dovere, di avere contribuito nel proprio piccolo alla produzione del reddito nazionale lordo, da cui attingeranno a piene mani gli uomini politici che pensano ai destini della nazione, i quali avranno per tempo diradato ogni scrupolo per impadronirsi di quello che noi abbiamo accumulato con fatica. Ma l’aspetto essenziale di un progetto di distruzione del lavoro è legato alla creativitàspinta al massimo livello possibile. Cosa possiamo farci col denaro di tutte le banche che saremo in grado di svaligiare se poi l’unica cosa che sappiamo fare è quella di comprarsi un macchina grossa, farci una bella casa, andare in discoteca, riempirci di bisogni inutili e annoiarci a morte fino alla prossima banca da svaligiare.

Cosa che fanno sistematicamente molti svaligiatori di banche che ho conosciuto in galera. Se tanti compagni che non hanno mai avuto soldi in vita loro pensano che questa sia la strada per togliersi qualche sfizio, facciano pure, troveranno le medesime disillusioni di qualsiasi altro lavoro, magari meno redditizio in tempi brevi, ma certamente meno pericoloso in tempi lunghi. Immaginarsi il rifiuto del lavoro come l’accettazione apatica della non attività, è una conseguenza dell’idea errata che tutti gli schiavi del lavoro si fanno di coloro che non hanno mai lavorato in vita loro. Questi ultimi, i così detti privilegiati dalla nascita, gli eredi dei grossi patrimoni, quasi spesso sono indefessi lavoratori che impegnano le proprie forze e il proprio ingegno per sfruttare gli altri e accumulare ricchezze e prestigio più altri di quelli avuti in eredità. Ma quand’anche ci limitassero ai non pochi esempi di scialacquatori di patrimoni che le cronache rosa dei giornali non mancano di illustrare, dovremo dunque a convenire che anche questa pessima genia s’ impegna del suo daffare, del tedio delle sue relazioni sociali come nella propria paura di essere vittima di aggressioni e sequestri. Anche questo è lavoro, ed essendo fatto con tutte le regole del fare coatto, diventa lavoro vero e proprio, dove lo sfruttatore di questi sfruttatori è, di volta in volta la propria libidine o la propria paura. Ma non penso possano essere molti coloro che considerano il rifiuto del lavoro come l’accettazione della noia mortale d’un non far niente continuamente sulla difensiva per evitare le trappole degli altri che potrebbero spingerli a fare qualcosa con sollecitazione e lusinghe, sia pure e non più in nome della necessità, ma dell’ideale, poniamo, o dell’affetto personale o dell’amicizia o di chissàquale altra diavoleria capace di attentare alla raggiunta condizione di completo soddisfacimento.

Una situazione del genere è priva di senso. Al contrario ritengo che il rifiuto del lavoro si possa identificare prima di tutto in un desiderio di fare le cose che più piacciono, quindi di trasformare qualitativamente il fare coatto in attivitàlibera, cioè in azione.

Su questo argomento, molti anni fa ho scritto un lungo articolo sul numero 1 di “Pantagruel†che per tanti aspetti resta ancora valido. Ma la condizione attiva, il fare libero non è conseguito una volta per tutte. Non può mai appartenere a una situazione esterna a noi piovutaci addosso, come l’arrivo di una grossa ereditào il provento fortunoso d’una banca svaligiata. Questi fatti possono essere l’occasione, l’accidente ricercato o meno, voluto o meno, che può aiutare e perfezionare un progetto in corso, non la condizione conclusiva e determinante.

Qualora questo progetto fosse carente, in termini di progettualitàdi vita nel massimo significato del termine, nessuna somma di denaro potràmai liberarci dalla necessitàdi lavorare, cioè di fare coattamente, spinti da un nuovo tipo di necessità, non più quella della miseria, ma quella della noia, o dell’acquisita condizione sociale, o del volere sempre più grosse porzioni di ricchezza o l’intera gamma dei simboli dello stato sociale adeguato alla nuova ricchezza conseguita. Il dilemma si scioglie approfondendo il proprio progetto creativo o, per dirla diversamente, riflettendo su quello che si vuole fare della propria vita e dei mezzi di cui si viene in possesso non lavorando. Se si vuole distruggere il lavoro occorre che si costruiscano percorsi di sperimentazione individuale e collettiva che non tengano conto del lavoro se non per cancellarlo dalla realtàdelle cose possibili.

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