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Nessun armistizio per l’11 novembre

mercoledì 25 giugno 2008

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«Non bisogna dimenticare che una questione di vita o di morte si pone per essi: se non fermassero le macchine andrebbero incontro alla sconfitta, allo scacco delle loro speranze; sabotandole hanno delle grandi possibilitàdi successo, ma, per contro, incorrono nella riprovazione borghese e sono oppressi da epiteti oltraggiosi. Dati gli interessi in gioco è comprensibile che essi affrontino questo anatema a cuor leggero e che il timore di essere vituperati dai capitalisti e dai loro servi non li faccia rinunciare alle probabilitàdi vittoria che riserva una ingegnosa ed audace iniziativa».
Emile Pouget, Sabotaggio, 1911

Tutti o quasi conoscono ormai la vicenda. L’8 novembre alcuni ganci di metallo ben piazzati sradicano i cavi elettrici della ferrovia in quattro punti diversi, provocando un casino sulla rete e fermando 160 TGV. L’11 novembre, in diverse città, un blitz della polizia altamente mediatico arresta dieci presunti colpevoli. Al termine di 96 ore di interrogatorio, nove saranno incriminati per «associazione di malfattori con finalitàdi terrorismo» e cinque incarcerati, tre dei quali sulla base di un «concorso in danneggiamento». A partire dal 2 dicembre, solo due resteranno in prigione, fra cui colui che è accusato di essere il "capo" della suddetta «associazione».

La presenza dei giornalisti la mattina stessa delle perquisizioni, poi il fango e le calunnie indirizzati contro gli "anarco-autonomi" nei giorni seguenti dai mass-media, dimostrano ancora una volta come costoro siano parte integrante del dispositivo anti-"terrorista". Avidi di spettacolarità, giocando sulla personalizzazione e rovistando nella spazzatura, efficienti amplificatori dell’operazione condotta dal ministro degli Interni, l’esperienza delle lotte passate non è certo stata smentita: questi avvoltoi sono nemici al servizio del potere. Pur essendoci ancora qualche ingenuo o imbecille che pensa che i media possano avere qualche influenza su una "opinione pubblica" per definizione immaginaria e quindi plasmabile a piacere, non ci si finisce di stupire per il ragionamento contorto secondo cui è solo collaborando con il nemico che lo si può colpire.

Nella fase attuale della menzogna istituzionale, stiamo assistendo alla progressiva costruzione della figura dei "buoni" e dei "cattivi" terroristi. Gli uni, droghieri servizievoli, adepti di comunitàcampagnole e bravi studenti, fanno da contro-altare agli altri, tutti gli altri, quelli che non hanno il profilo adeguato o che, più in generale, rifiutano di mostrare le carte in regola quando il potere intima loro di farlo. Lontani dal significativo riciclaggio a suon di politici eletti, di interviste e di chiacchiere sull’esistenza o meno di "prove", diversi compagni marciscono in prigione ormai da molti mesi, accusati anch’essi di appartenere all’ "area anarco-autonoma" e (in base alle tracce del DNA) dell’incendio di un veicolo della polizia. Altri, alcuni clandestini, sono stati incarcerati perché accusati dell’incendio del centro di detenzione per immigrati di Vincennes, sulla base di alcuni video. Altri ancora, da Villiers-le-Bel a quegli "innocenti" colpevoli di tentare di sopravvivere al di fuori del lavoro salariato, sono colpiti quotidianamente dall’accusa di «associazione di malfattori».

A priori, gli uni non si contrappongono agli altri.

A meno di fare proprie le categorie del potere, il solo a qualificare ciò che è "terrorista" e ciò che non lo è; a meno di confermare la distinzione fra prigionieri "politici" e "sociali"; a meno di dimenticare volontariamente — a partire dal nome dato alla maggior parte dei comitati di sostegno («ai 9 di Tarnac») — che altri sono caduti prima e altri ancora forse seguiranno; a meno di essere pronti a sacrificare, nel nome della "innocenza" degli uni (benché il "fascio di prove" e "l’intima convinzione" del magistrato siano concetti giudiziari, ci piaccia o no), tutti i "colpevoli" che quotidianamente vengono beccati.

A meno inoltre di trarre qualche vantaggio aiutando il potere a tracciare di fatto una linea fra i "buoni" e i "cattivi": fra quelli che si recano di buon grado alla sede di un giornale per raccontarvi la loro vita e talvolta quella degli altri e quelli che tacciono di fronte ai microfoni, fra quelli che fanno comunella con gli intellettuali di professione stipendiati dallo Stato e quelli che intendono spezzare ogni specializzazione, fra quelli che nelle riunioni scambiano le loro opinioni con dei politici eletti e quelli che attaccano le sedi dei partiti; per farla breve, fra quelli che dialogano con il potere e quelli che sono definitivamente irrecuperabili, pazzi che si ostinano ad attaccare il potere invece di riprodurlo (con le sue categorie, i suoi ruoli e le sue gerarchie) — una riproduzione che finisce per forza di cose col rafforzarlo.

Ma torniamo ai fatti. Essere contro la democrazia in favore di una libera auto-organizzazione fra individui e contro ogni sistema rappresentativo, significa forse essere "terroristi"? Difendere il sabotaggio allo stesso titolo di altri strumenti di lotta, senza gerarchia alcuna, significa essere "terroristi"? Battersi senza mediazioni per la distruzione totale dello Stato e del Capitale, insomma essere anarchici un po’ più conseguenti, significa essere "terroristi"? Avere cattive intenzioni, sostenerle e scriverle, significa essere "terroristi"? Trovare nel corso delle lotte complici con cui riscoprire affinitàcostituisce di per sé una "associazione di malfattori"? In tal caso sì, tre volte sì, rivendichiamo a voce alta la nostra passione per la libertà, con tutte le conseguenze che implica. La stessa passione che anima tanti sconosciuti che, lontani dalle sirene mediatiche, lottano quotidianamente contro il dominio.

In questo mondo basato sullo sfruttamento, la devastazione dell’ambiente, la guerra e la miseria, non è certo considerato criminale restare inerti nell’attesa che tutto crolli o, in modo ancor più cinico, fare la conta dei punti sperando di cavarsela ognuno per sé, atomizzati nella propria piccola gabbia. Giacché la democrazia, questo modo di gestione più o meno autoritaria del capitalismo, non è il meno peggiore dei sistemi. Fino ad ora la democrazia ha dato soprattutto prova del proprio fallimento: il mondo che domina resta un mondo di sottomissione e di privazione. È un sistema che dàl’illusione di poter partecipare alla gestione del disastro, cioè del proprio annientamento, fomentando e mascherando la divisione della societàin classi, le cui contraddizioni verrebbero assorbite dalla concertazione permanente.

Allo stesso modo, lo Stato non è quello strumento neutro che regola i difetti del mercato. È uno dei suoi alleati, come dimostra ancora una volta in questi tempi di "crisi finanziaria" l’iniezione massiccia di denaro per salvare banche e imprese, mentre le condizioni di sfruttamento si inaspriscono e arrivare a fine mese diventa sempre più difficile. Sì, noi vogliamo abbattere lo Stato e non conquistarlo, perché proprio come le sue prigioni, i suoi sbirri e i suoi tribunali che ne sono il riflesso, è uno dei pilastri di questo mondo mortifero.

Quanto al capitalismo, se è prima di tutto un rapporto sociale senza cuore né centro, spetta a ciascuno combatterlo in ognuno dei suoi aspetti quotidiani. Nell’economia detta "globalizzata", basata su una circolazione permanente, i flussi di merci (umane e non) hanno acquisito una importanza fondamentale. È quindi del tutto naturale che il blocco abbia fatto la sua ricomparsa un po’ dappertutto in seno alle lotte di questi ultimi anni, se non per sferrare dei duri colpi, almeno per porre le basi necessarie alla costruzione di un rapporto di forza (dal CPE agli scioperi dei ferrovieri passando per i guardiani delle chiuse del febbraio 2008 in Francia, ma anche nelle ferrovie in Germania nel 2007 o nella Val Susa in Italia nel 2005).

Questa critica anti-capitalista basata sull’azione diretta e giudicata inutile, superata o criminale dagli intellettuali servili, tanti sfruttati l’hanno sperimentata nello loro lotte perché sperimentano il capitalismo direttamente sulla propria pelle. Il blocco dei TGV (attraverso il danneggiamento delle linee catenarie o l’incendio dei cavi come nel novembre 2007) — questa macchina devastatrice destinata ad accelerare ancor più la circolazione dei flussi di merci — non è accaduto a caso, ma è anche il frutto dell’esperienza comune delle recenti lotte sociali. Senza contare che il sabotaggio resta una pratica diffusa che trova la sua ragione d’essere da sempre nel cuore stesso dello sfruttamento, sia che avvenga per rubare tempo al padrone o per causare danni a ciò che opprime ogni giorno di più.

Quel che teme il potere non sono le sagge manifestazioni inquadrate dai sindacati durante le grandi giornate di inazione, ma la propagazione di atti diffusi e anonimi che si inscrivono nella guerra sociale permanente, oltre ogni separazione. Allora, nel momento stesso in cui la pressione aumenta ovunque contro i dissidenti della democrazia mercantile, rinnegare il proprio passato, le proprie idee o semplicemente il proprio antagonismo sembra essere l’ultima àncora di salvezza proposta dal potere. Rifiutare questo ricatto permanente diventa quindi, al di làdella preoccupazione di non nuocere a nessuno, anche una questione di integrità, una delle poche cose che lo Stato non può sottrarci.

Chiunque siano gli autori dei sabotaggi dello scorso novembre, noi affermiamo quindi la nostra solidarietàcon l’atto che hanno commesso. Allo stesso modo, di fronte alla repressione che pretende di aver smantellato una "cellula invisibile", non ci sta a cuore un mero sostegno, per forza di cose esterno e relativo a ciò che essi sono o si presume siano, bensì una solidarietàcontro lo Stato e tutti i suoi scagnozzi. Una solidarietàche, come la rivolta, non può essere esclusiva ma si rivolge a tutti coloro che lottano sul cammino verso la libertà. Se gli innocenti meritano la nostra solidarietà, i colpevoli la meritano ancor di più!

Anarchici malgrado tutto.

da Cette Semaine n. 97, dicembre 2008